“Gormenghast, ovvero l’agglomerato centrale della costruzione originaria, avrebbe esibito, preso in sé, una certa qual massiccia corposita’ architettonica, se fosse stato possibile ignorare il nugolo di abitazioni miserande che pullulavano lungo il circuito esterno delle mura inerpicandosi su per il pendio, semiaddossate le une alle altre, fino alle bicocche piu’ interne che, trattenute dal terrapieno del castello, si puntellavano alle grandi mura aderendovi come patelle a uno scoglio. Questa fredda intimita’ con la mole incombente della fortezza era concessa alle abitazioni da leggi antichissime. Sui tetti irregolari cadeva, col variare delle stagioni, l’ombra dei contrafforti smangiati dal tempo, delle torrette smozzicate o eccelse e, enorme tra tutte, l’ombra del Torrione delle Selci che, pezzato qua e la’ di edera nera, sorgeva dai pugni di pietrame nocchiuto come un dito mutilato puntando come una bestemmia verso il cielo. Di notte, i gufi ne facevano una gola sonante; di giorno, la sua ombra nera si allungava muta.”
(Tito di Gormenghast, Mervyn Peake)
Ho letto e riletto la trilogia di Gormenghast diverse volte negli ultimi mesi. Una cosa assolutamente insolita per me, che difficilmente arrivo in fondo a libri così voluminosi e tanto meno li rileggo. Ho letto il primo volume d’un fiato, in una settimana di febbricitante incanto.
La scrittura di Mervyn Peake ha un che di vertiginoso e come ogni vertigine puoi fuggirne o abbandonartici completamente. Io gli sono caduta in braccio dal primo paragrafo, ogni goccia di sangue assorbita nelle sue pagine. Esistono diversi modi di interpretare il mondo di Gormenghast e gli intenti di Peake: il crollo dell’Occidente, la fine di un’epoca, l’avvento del nazismo, Steerpike come Hitler, Gertrude regina dell’Impero Britannico, la crescita di un bimbo, il romanzo di una formazione, il disegno di un’identita’..
Probabilmente c’e’ del vero e del falso in tutte e nessuna di queste afferra completamente il senso, talmente e’ ricco il mondo inventato da Peake. Io ci ho letto la rovina di un mondo polveroso, duro a morire, che vende cara la pelle e che rovinando giù trascina tutti con se’. Ci ho letto un magnetico Steerpike (Ferraguzzo), il caos, l’elemento sovversivo, che in un macabro balletto rovescia il tavolo, ad ogni costo. Ci ho letto la compassione, nel senso più vero del termine, per l’inadeguata Fuchsia e per noi piccoli e maldestri esseri umani impressi nelle macerie come calchi di gesso a Pompei. Ci ho letto un Barbacane giudice amministratore della disciplina e della tradizione e un Lisca nei secoli fedele all’ordine come un cane poliziotto.
Ogni libro è diverso, anche e sopratutto il terzo, scritto da un Peake divorato dal Parkinson e ricostruito postumo. Eppure anche nel terzo, c’è una rabbia senza scampo, una lucida calda terribile rabbia verso quel mondo che doveva cadere e verso quello che ci si è imposto come sostituto. E insieme, in tutti e tre i libri, ci sono una gran tenerezza, una leggera e affilata allegria, una profonda e rara comprensione, degne di un meraviglioso scrittore e di un illustratore immaginifico.
La BBC ha tratto una miniserie dai primi due volumi di Gormenghast, per certi versi molto vicina e accurata, con una visione forse troppo semplificata che in parte mi ha delusa, ma con un senso del fantastico che me l’ha fatta apprezzare comunque. Jonathan Rhys Meyers probabilmente e’ stato divorato da Steerpike, immagino gli abbia mangiato cuore e polmoni, non si esce indenni da una cosa così, come mi sono accorta.
Licheni, il racconto che ho pubblicato su Ruggine diviso in tre parti, e’ stato tradotto in inglese e poi in ungherese.
Ne sono veramente orgogliona come una bambina il giorno della pagella.
Nella versione ungherese potrebbe esserci scritto qualunque cosa, ovviamente.
“nonostante tutto, fratello, ci speravo questa sera di poterti sentire sorridere…
e invece… non gli è bastato giudicare il tuo assassinio come legittimo. Dopo undici anni, si sono voluti prendere altre vite.
E non quelle di chi ha ucciso, torturato, massacrato, o quelle di chi ha ordinato i massacri o di chi ha assicurato protezione.
Si sono presi ancora una volta le vite dei nostri compagni, dei nostri fratelli e sorelle.
Hanno chiamato “devastazione e saccheggio” un po’ di vetri rotti, alcuni dei quali causati – forse – dai 10 imputati.
Hanno chiamato “falso” il coma, le ossa e i denti rotti, il sangue, le torture e le minacce causate dalle forze dell’ordine che non hanno voluto identificare.
Hanno chiamato legittimi il buco che un proiettile ha creato nella tua testa, la devastazione che un defender ha fatto sul tuo corpo, la ferita che una pietra ha causato sulla tua fronte, mentre eri steso tra decine di scarponi, quando il tuo cuore ancora gridava.
Hanno dichiarato legittimo il saccheggio della tua vita. e oggi legittimano il saccheggio di altre vite.”
Viviamo strani giorni, tutto sembra l’inizio di qualcosa e niente lo e’ veramente, Nessuno ha il coraggio di edificare la prima pietra e tutto sembra cristallizzato a fiato sospeso in attesa che qualcun’altro ci svegli per farci vedere il nuovo meraviglioso mondo del futuro gia’ bell’e pronto per noi.
Del resto la mia generazione convive da sempre con la sensazione di essere troppo giovani per e troppo vecchi per. Dopo di, ma anche prima di. Un’epoca di transizione, l’uscita da un tunnel che sappiamo benissimo com’e’ fatto, ma non abbiamo tanto capito in cosa si trasformera’.
Qualche tempo fa ascoltavo una platea di anarchici, dall’eta’ media invero piuttosto alta, discutere di decrescita e declino del capitalismo. Osservavo alcuni di loro spaesati giurare che il capitalismo non puo’ morire, non e’ possibile. E quasi sembravano rassicurarsi mentre lo dicevano. Dio ce ne scampi e liberi, ci toccasse inventarsi davvero qualcosa che funziona, e provarlo addirittura. Ma ce n’erano altri che illuminavano la stanza con le loro semplici possibilita’. Mi hanno rincuorato.
Sara’ che sto invecchiando, ma inizio a misurare l’intelligenza umana con il metro della capacita’ di analizzare un problema e risolverlo. No, forse e’ colpa dell’informatica. Fatto sta che se mi guardo intorno i giorni che viviamo non mi sembrano cosi’ difficili da decifrare. Quando ti sei letto la definizione di swap su wikipedia, hai guardato qualche vecchio video di Avanzi con la signorina Vaccaroni che ti spiega il baratro e la pizza di fango del Camerun, hai letto 2-3 articoli di economisti appena un po’ fuori dai palazzi, non hai bisogno di molto altro per capire che sta succedendo. Il grosso sta invece nella soluzione che elabori per risolvere quel dato problema. Qui ci vuole intelligenza, fantasia e un sacco di coraggio. Non e’ detto poi che riuscirai a portare a termine neanche una piccola parte dell’ottimo piano che avevi elaborato, ma almeno forse ti sentirai meno stupido nel vivere questi giorni di transizione.
Problema:
Il sistema economico/politico mondiale e’ al collasso. Il capitalismo come se l’era inventato Smith e’ morto e sepolto, la finanza ha ridisegnato un ordine caotico fondato sull’irrazionale (crescere all’infinito non e’ razionale, comprare prodotti derivati non e’ razionale, riempire il mercato di swap non e’ razionale..) che dopo qualche anno inizia a decomporsi e trascinare tutto con se’. Il passaggio al neoliberismo puro si e’ compiuto: lo stato non ha piu’ alcuna funzione se non quella di cavare sangue per fare trasfusioni alle banche e organizzarsi militarmente e strategicamente perche’ i donatori di sangue restino fermi sul lettino.
Come possono le persone buone (quelle cattive che muoiano sotto le banche crollate) sopravvivere e magari approfittare di questo casino per ripensare un organizzazione della vita collettiva meno autodistruttiva e meno devastante?
Soluzioni:
A) Indignarsi.
Va bene, non e’ una vera soluzione. In effetti e’ solo un manifestarsi di un sintomo di insoddisfazione. La soluzione suggerita in fin dei conti e’ che ci pensi qualcun’altro a mettere a posto le cose, magari gli stessi che il problema l’hanno creato. Perche’ chi rompe paga, i cocci sono suoi e insomma fate come vi pare, ma noi la crisi non la paghiamo.
B) Lo Stato.
Sottile e strisciante, questa soluzione a me pare di vederla suggerita praticamente ovunque. Rivogliamo uno stato forte e sano, che ci dia la pensione, il posto di lavoro fisso, il reddito (?!), le fabbriche, l’acqua e l’aria. Vogliamo tornare ai bei tempi dei contratti collettivi, dell’operaismo, delle riforme del lavoro, ma quelle giuste, vogliamo una mamma che si prenda cura di noi e lo faccia bene.
C) Le macerie.
Ci siamo fatti un’idea di come gira il mondo e un’idea di come continuerà a girare se non lo fermiamo. L’unica via e’ l’estinzione del genere umano, un grosso rogo che elimini tutti i problemi, distruggiamo tutto e poi i sopravvissuti si siederanno sulle rovine e proveranno a tirare le somme. Certo, si spera che i sopravvissuti non siano i nipoti di agnelli e monti, altrimenti siam punto e a capo. In ogni caso prima si elimina la radice del male, poi si ragiona sul cosa ci piacerebbe fare.
Affascinante come ipotesi, devo confessarlo, temo che pero’ al massimo ci sarebbe concesso di attuare la prima parte del piano e che la seconda parte fallirebbe per mancanza di materiale umano decente o perche’ seduto sopra alle rovine non ti ricorderai piu’ che cosa volevi fare.
D) La costruzione in mezzo alle macerie
Mentre il mondo cade a pezzi, proviamo ad andare avanti a capo chino intenti a costruire degli spazi vivibili, spazi esterni e inner spaces, come direbbe Ballard.
Questo modello di societa’ votato al collasso, atomizzante e avvilente, pone alcune delle sue fondamenta piu’ solide sulla demolizione della dignità degli individui e sul sistematico avvelenamento della collettivita’. Persone sole, diffidenti, competitive e fratricide non possono che dar vita a un modello sociale devastante.
Curiamo prima di tutto questo inconscio collettivo, diamo alle persone strumenti per riprendere in mano la propria quotidianita’, uccidiamo alla base il concetto di autorita’ e quello di delega e insieme ricostruiamo una collettivita’ condivisa. Una parola efficace come tutti i concetti semplici: l’autogestione.
In tutti questi anni c’e’ una parte di societa’ che e’ riuscita a sopravvivere in questo mondo infame grazie all’autogestione. Non parlo solo di questioni materiali, ma anche di sopravvivenza psicologica. Gli orti collettivi, i gruppi d’acquisto, quelli di autocostruzione, i luoghi autogestiti, le palestre popolari, le case occupate, le autoproduzioni di ogni sorta. Tutto cio’ ha permesso a molte persone non solo di mangiare, tirare avanti e campare dignitosamente, ma anche di non impazzire. Questo mondo al collasso crea mostri, porta a una disperazione molto poco romantica, porta al suicidio e alla violenza esasperata. Io non sono molto attratta dall’idea di starmene ferma ad osservare il baratro, perche’ ho idea che quel baratro sara’ proprio brutto da vedere e il poter dire “ve l’avevo detto che finiva cosi'” non mi consolerebbe molto. Allora posso passare un sacco di tempo a lottare contro la privatizzazione dei trasporti pubblici e lo faccio seriamente e di cuore, ma quando poi la privatizzazione me la fanno lo stesso magari metto in piedi un sistema di trasporto di quartiere autogestito. Per dire.
Posso passare mesi a chiedere che una fabbrica non chiuda, quando poi la produzione viene spostata in romania e gli operai licenziati, magari occupo la ex-fabbrica e ci faccio un centro di smistamento e riciclaggio dei rifiuti, con officina del riuso e del recupero. Per dire.
Tutto troppo semplice probabilmente, ma d’altra parte occhio che la complessita’ viene usata da anni per confinarci nell’immobilita’. Mai come prima, questi sono gli anni del fare e dell’inventare. Sara’ sempre piu’ dignitoso che supplicare.
“Per la prima volta entravo in contatto con un gran numero di persone di condizione proletaria, con una tale varieta’ di accenti regionali che ci voleva un orecchio allenato per decifrarli. Girando nella zona di Birmingham ero stupito nel vedere che vita triste facessero, quanto poco venissero pagati, quanto male venissero istruiti, alloggiati e nutriti. Per me erano una grande massa di forza lavoro sfruttata, piu’ o meno allo stesso livello degli operai industriali di Shanghai. E mi fu anche chiaro, fin da subito, che il sistema classista inglese che conoscevo direttamente allora per la prima volta, non era un pittoresco vestigio del passato, ma un sistema di controllo politico. Nei tardi anni quaranta e cinquanta la gente delle classi medie vedeva la classe operaia quasi come fosse un’altra specie, e per escluderla si barricava dietro un complesso sistema di codici sociali.
Codici che dovevo imparare adesso per la prima volta – mostrare rispetto per gli antenati, non essere mai troppo entusiasta, stringere i denti, essere gentili con i piu’ giovani, rispettare la tradizione, stare in piedi quando si suona l’inno nazionale, offrire la propria guida, essere riservato e cosi’ via, tutto calcolato per creare un senso di opprimente deferenza (…). Nella vita delle classi medie inglesi tutto ruotava intorno a codici di comportamento che, per quanto incosciamente, incoraggiavano a praticare la mediocrita’ e a non aspettarsi mai troppo dalla vita (…).
In breve, non pagavano gli inglesi un prezzo salatissimo per il sistema di autoillusione che era praticamente alla base di tutta la loro vita? Era la domanda che sembrava balzare agli occhi dalle strade dissestate e dalle buche delle bombe quando misi piede per la prima volta in Inghilterra, e che in gran parte fu all’origine della difficolta’ che trovai ad ambientarmi qui. Essa alimento’ la mia incertezza su me stesso, e mi incoraggio’ a vedermi per il resto della mia vita come un estraneo e un dissdente. Probabilmente mi indirizzo’ nel diventare uno scrittore specializzato nel prevedere e, se possibile, provocare il cambiamento. Il cambiamento, pensavo, era cio’ di cui l’Inghilterra aveva disperatamente bisogno: e lo penso ancora adesso.”
J.G. Ballard – I miracoli della vita – Feltrinelli 2009
Penso a questo mentre guardo le immagine delle rivolte in Inghilterra. Penso a questo e alla bellissima scena finale di This is England, di Shane Meadows. Uno dei pochissimi film su una controcultura fatto come si deve. Fra l’altro, nell’avanzatissima italia questo film del 2005 esce tra due settimane al cinema, andate a vederlo.
In ‘sti giorni a vivere in europa ti sembra di essere in un libro di Moorcock. Uno di quei caotici pastiche cyberpunk in cui tutto sta per finire e tutto in qualche modo continua ad andare avanti. Ho ritrovato una vecchia bozza di un post mai finito, ma le parole di chiusura in questo agosto non mi sembrerebbero comunque appropriate. Lasciamolo cosi’ dunque, non finito.
Spesso mi sento a disagio a parlare di apocalisse o no future, perche’ temo di essere presa per una sorta di maniaca suicida, che sogna di saltellare allegra tra le ceneri di qualche macabro genocidio. L’apocalisse che intendo e’ una comoda metafora per parlare della fine del mondo come l’abbiamo conosciuto finora. Quel mondo scritto e vergato col sangue, fatto di pianto e lamento, di lavoro stipendio casa e di nuovo lavoro. Di ansia, di giorni spezzati, di ritmi decisi da altri, di corse folli verso merci improbabili. In cambio di tutta questa nevrosi avevamo in pugno le magnifiche sorti e progressive di un’umanita’ destinata a divenire ricca, immortale e invincibile. Nel piccolo, in cambio di una vita sedata ci veniva offerto un mondo ordinato.
Ma adesso, questo mondo e’ gia’ adesso sull’orlo di una crisi di nervi, le nostre vite assistono impotenti a decine di apocalissi quotidiane. Continui traumi con cui dobbiamo via via imparare a convivere. Parlate con un operaio di Mirafiori oggi, ditemi se le sue angoscie non ricordano quelle di un terremotato che si e’ visto crollare addosso tutto il suo mondo. E la rassegnata disperazione di uno stagista precario? Quanto e’ diversa la sua assenza di domani da quella di un alluvionato di New Orleans?
Non resta che affondare le mani in questa nostra quotidiana apocalisse, riprendendo il controllo del nostro ferito inconscio collettivo e finalmente ricominciare da capo.
E si’ che qualche idea ce l’avrei. Cominciare innanzitutto a ripensare i rapporti tra esseri viventi, ripensare al concetto di autorita’ e a quello di potere, mettersi nella condizione di non dominare su niente e nessuno. Ripensare alla storia umana, rileggerla e metabolizzarla per superarla, per andare oltre portandosela dietro serenamente.
Poi ripensare al grande, enorme concetto di responsabilita’. Farsi carico della propria vita, di quella degli altri escludendo per forza di cose le pigre deleghe che hanno dominato duemila anni di storia umana..
Un’apocalisse faticosa insomma, ma piu’ dignitosa del doloroso modo di vivere a cui eravamo abituati.
Venerdi’ scorso e’ uscito il quarto numero di Ruggine. Ogni volta mi stupisco di trovarmela fra le mani in carne e carta, densa dei nostri racconti, delle nostre fantasie, paure e entusiasmi. Piano piano nel tempo mi arrivano lenti commenti di amici e creature simili che finora hanno letto in silenzio. E’ difficile avere a che fare con la scrittura, e’ inusuale nei nostri giri, purtroppo. C’e’ da tirare fuori un bel po’ di viscere e lasciarle li in bella vista, sotto gli occhi crudeli di tutti. Sono contenta che questo buffo amalgama di creature rugginose riesca ancora a farlo e sempre meglio. Ne sono molto orgogliosa.
E mentre vi sprono a non lasciarci soli al nostro destino di scribacchini, prenotando su Pdb la vostra copia di Ruggine (seguite il banner nella colonna qui a fianco) o abbonandovi a Ruggine o diventando coproduttori… ecco un racconto che ho scritto per questo numero.
Leccio
Stava arrivando il primo freddo.
Puntuale e metodico si presentava come tutti gli anni con un vento gelato e secco.
Leccio camminava pesticciando le foglie distese in terra. Non facevano quel crepitio sordo autunnale, le lunghe piogge le avevano ammorbidite e impastoiate di fango.
Si tiro’ su il bavero del giacchetto. Era un gesto che lo faceva sentire meglio, gli dava il senso dell’inverno.
Quest’anno, si disse, sarebbe arrivato preparato al freddo. Avrebbe fatto la formica, avrebbe messo via combustibile e bei ricordi abbastanza per non farsi sorprendere dalla malinconia.
Spinse il cancello in avanti e se lo richiuse alle spalle con gesti attenti. Apri’ la piccola porta di vetro e fece un passetto sullo zerbino. Si volto’ e il tramonto rosso spariva veloce dietro la montagna. Cominciava un’altra sera ed era tempo di rientrare in casa.
Mise un ciocco di legno dentro lo sportello della cucina e inizio’ a prepararsi il te’. Erano passati diversi mesi da quando si era procurato quel pacchetto di te’ nero. Non ne rimaneva molto in giro e li’ al nord era proprio difficile pensare di coltivarlo. Il piacere del te’ era quindi riservato all’inverno, le foglie venivano riutilizzate piu’ volte e ci si aggiungeva qualche bacca di ginepro o rosa canina. Quando calava un po’ il vento Leccio si spingeva anche a raccogliere il timo che cresceva sui dirupi in riva al mare. Era buono il timo marino, e gli calmava quella fastidiosa tosse stagionale.
Un giorno Leccio si era spinto un po’ piu’ in giu’, dopo la galleria, nel dirupo vicino al molo verde dove galleggiavano le immense rovine di quell’albergo mai finito. C’era un’intera parete di nasturzi. Anche i nasturzi erano buoni, se ne mangiavano i fiori in insalata, insieme alle foglie di tarassaco. E li’, mezzo nascosto dalla sabbia e dai rami secchi c’era questo disco di metallo arrugginito. Leccio si era avvicinato stando attento a non inciampare nelle alghe e negli ossi di seppia.
Appurato che il disco non fosse rovinato, rotto, o in qualche modo ferito, Leccio aveva controllato che la marea non lo lambisse.
“Buonasera. Se ne sta a prendere un po’ d’aria di mare, eh?”
Il disco non rispose, ma d’altra parte neanche si ritrasse dalla conversazione.
“Mi scusi sa, ma non si incontra molta gente ultimamente e a me piace ogni tanto scambiare il calore di qualche parola.”
“Sta bene vero? Non sara’ mica arrivata qui dal mare? Deve stare attenta all’acqua e alla salsedine.”
“Anch’io non posso andare in acqua. Cioe’, non per molto tempo. Sono fatto di stoffa, vede? Mi impregno di acqua e poi camminare e’ piu’ difficile, le zampe si fanno pesanti e se non mi asciugo in fretta finisco anche col muffire.”
Il disco non aveva detto niente, ma non sembrava disdegnare un po’ di compagnia.
“Una volta ho visto un’altra come lei. Tendete ad esplodere, vero? Ho un amico che una volta e’ saltato in aria perche’ e’ inciampato in una come lei. Non l’ha fatto apposta. Gli ci e’ voluto un po’ per rimettere insieme i pezzi e tutta l’imbottitura. Adesso sta bene comunque. Tranne quel bottone ballerino al posto dell’occhio e l’orecchio un po’ rovinato. Sta bene comunque adesso, non si preoccupi, davvero. E’ nella vostra natura esplodere e nella nostra saltare in aria e riaggiustarci.”
Il disco gli era parso un po’ amareggiato da quella storia. Forse non era stato tanto il caso di entrare in certi argomenti.
“Ancora le giornate sono lunghe e luminose. Ha fatto bene a fermarsi qui un po’, ci sono un sacco di colori. Io ne prendo sempre il piu’ possibile di colori, li colgo, li assorbo, li tengo negli occhi, mi servono per quando arriva l’inverno, per le serate che devo passare a ricucirmi.”
“Finisce che poi le cuciture mi vengono colorate. E’ una cosa buffa, sa? Non so come succede. Finisce che queste mie cuciture mi vengono bene e sono belle. Non trova che siano bellissime?”
Il disco non aveva risposto, ma non lo aveva contraddetto e anzi sembrava mostrare una certa compartecipazione sul discorso delle cicatrici.
“Bene, me ne torno a casa. Devo fare ancora qualche preparativo per l’inverno. Questa volta non mi faro’ cogliere impreparato, sa? Magari torno a trovarla uno di questi giorni, se e’ ancora qua. Arrivederci”.
Aveva dato un’ultima occhiata al disco prima di voltarsi e si era ricordato della sciarpa di cotone blu che si portava dietro per quando si alzava improvviso il vento. L’aveva sistemata con cura sul disco e l’aveva rincalzata bene in modo che gli tenesse un po’ caldo e lo riparasse almeno un po’ dall’alta marea.
Poi aveva ripreso a raccogliere i nasturzi che ricamavano il tragitto verso casa.
La teiera fischio’. Leccio si verso’ il te’ nella tazza, ci mescolo’ un po’ del suo adorato miele e si sistemo’ sulla poltrona davanti al camino sgranocchiando un biscotto. In fondo l’inverno e’ una piacevole sensazione, si disse mentre tirava su le zampe sulla poltrona e si addormentava al calore del caminetto.
Ieri ho letto questa intervista a Hillman molto interessante. E’ evidente che Hillman legge Ruggine.
Ho tagliato una prima parte, la versione integrale la trovate qui.
James Hillman, psicologo, studioso, critico culturale e autore di oltre venti libri, tra cui Il codice dell’ anima, è uno dei più brillanti pensatori del nostro tempo sulla psiche umana e la psiche collettiva. Sta per compiere ottantacinque anni ed è in convalescenza dopo due anni di malattia. «È una nuova vita», mi dice. «Tanta riflessione al posto dell’ ambizione». La psiche americana ha sempre nutrito le riflessioni di Hillman; quella che segue è una versione ridotta di una conversazione sulla sua interpretazione psicologica dell’ attuale Zeitgeist.
(…) Lei ha detto che c’ è, nell’ America di oggi, un certo «aspetto tragico». Può spiegarci meglio?
«Tutto ciò di cui ognuno di noi ha paura è già successo: la fragilità del capitalismo, che non vogliamo ammettere, la perdita della vocazione imperiale degli Stati Uniti; e l’eccezionalismo americano. In realtà l’ eccezionalismo americano è che siamo eccezionalmente arretrati in almeno quindici campi diversi, dall’ istruzione alle infrastrutture. Ma siamo in una fase di rifiuto: vogliamo restaurare le cose come erano una volta, rimettere il Paese dov’ era un tempo». Continue reading →
Finalmente siamo andati in missione ad esplorare la polveriera di Nobel. Come spiegato nel divertentissimo post di vlad (dove potete ammirare anche diverse foto), ci siamo un tantino persi nei boschi e le ore di luce a nostra disposizione si sono ridotte drasticamente a minuti. Diciamo che ci siamo fatti un’idea e abbiamo aggiunto uno scenario surreale in piu’ al nostro immaginario, ma ci dovremo assolutamente ritornare.
Alcune cose erano esattamente come me le immaginavo. Le porte senza stanze e le pareti orfane, gli alberi cresciuti dentro i muri e dentro le finestre, il bosco che prepotentemente si riprendeva il maltolto. Altre cose non potevo aspettarmele: un sentiero di lastricato divelto e colonnine crollate, come Fantàsia dopo il passaggio del Nulla, le casematte che ti guardavano con il loro silenzio di pietra, pezzi di roccia ferrosa residui dell’esplosione. Su tutto, il silenzio mai provato di una citta’ completamente disabitata.
Ti resta attaccato qualcosa di alchemico, ti tornano in mente le reminiscenze di cui parlava Platone. C’e’ qualcosa in quel mondo nascosto nel bosco che avevi sempre saputo pur non avendolo mai sperimentato. C’e’ una bellissima apocalisse pacificata da sessant’anni di assenza dell’uomo.