Comunita’, integrazione, inclusione e altre porcherie

311In questi giorni, tra mobilitazioni contro i cpt, deliri emergenziali e letture interessanti mi sto concentrando molto sul termine di comunita’ e su quello di integrazione. Sto leggendo un libro molto lucido che consiglio a tutti: Lessico del razzismo democratico, di Giusppe Faso, uscito da poco per DeriveApprodi. Ha il pregio di farti riflettere sulle parole senza darti delle soluzioni alternative precotte. E cosi’ stai li’, pensi, rimugini e ti germogliano in testa cose interessanti, che hai scoperto da solo e che non ti ha insegnato nessuno.

E infatti.

Ho sempre pensato al termine comunita’ come a un qualcosa di bello, un gruppo che univa individui legati dalle stesse passioni, da idee affini e intenti comuni. Pensavo alla comunita’ hacker, a quella punk, alle sottoculture.. ma questo tipo di comunita’ sono per definizione aperte e "contaminabili" in qualsiasi momento. Spesso si fondono e straripano continuamente dagli argini.

Invece questo termine viene correntemente usato con ben altri significati, e mi viene da pensare che cio’ che cambia e’ lo scopo con cui viene usata una parola: ci sono comunita’ nate per includere e comunita’ nate per escludere.

comunita’ rumena, comunita’ albanese, comunita’ sengalese…
e’ come se si desse per scontato che gli immigrati nel nostro paese possano far parte unicamente di una comunita’ che riunisca persone nate nello stesso luogo.
i migranti non sono individui, con dei loro interessi, delle loro passioni.
davanti a tutto deve sempre restare il marchio solenne del luogo di nascita, lo stigma dello straniero.
siccome abbiamo paura di mescolare le nostre abitudini con altre diverse, magari per poi scoprire che ci piacciono di piu’, ecco che tracciamo comunita’ i cui confini sono invalicabili. potrei condividere con un rumeno la passione per il calcio, ma non potrei certo diventare rumeno anch’io. ognuno resti nella propria comunita’ e non se ne parli piu’.
al massimo si parla di "integrazione" o, peggio, di "inclusione". lasciando intendere, senza possibilita’ di dubbio, che una persona puo’ venir presa e fatta entrare nella mia "comunita’". un processo a senso unico, dove non si accettano mescolanze e contaminazioni. ho un clan, e se stai buono faccio entrare anche te, del clan diverso.
questa e’ la tesi che nell’Europa contemporanea va per la maggiore nella sinistra bene. questo e’ quello che ha portato avanti per anni la Francia, e che sta scoprendo ora il pd qui da noi (con i soliti 15-20 anni di sonnolento ritardo). Modello anglosassone contro modello francese. L’uno freddamente menefreghista e fintamente tollerante: vestiti e parla un po’ come ti pare, tanto non conti niente comunque. l’altro protezionista e fintamente materno: la mia comunita’ ha un’identita’ che non si tocca, se stai bravo ti si fa entrare e far finta che sia anche la tua, altrimenti fuori, non avessi a contaminarci.

I rivoltosi delle banlieues vengono accusati di "comunitarismo", si sentono parte di una comunita’ che non coincide con quella francese e bruciano per emergere dall’invisibilita’.
Ingrati: noi li accettiamo nel nostro clan, li chiamiamo "figli e figlie della Repubblica"(1), accordiamo loro il permesso di sentirsi francesi, e ci ripagano sbattendoci in faccia la loro estraneita’.
Ma come puo’ un Algerino sentirsi figlio della Repubblica? Sono i figli di chi nel ’61 e’ stato ammazzato nella Senna dalla polizia francese(2), non di Napoleone, di De Gaulle o di Robespierre.
E’ un razzismo estremo, quello di una comunita’ chiusa che si sente generosa, dall’alto della propria superiorita’, nel permetterti di rinunciare alla tua identita’ per aderire alla sua.

( 1) nel 2005 Chirac chiamava cosi’ i giovani delle banlieues: «ils
sont tous les filles et les fils de la République».

( 2 )  http://aquiestoy.noblogs.org/post/2007/10/17/17-ottobre-1961-il-massacro-di-parigi-la-nuit-oubli-e