E’ buffo conoscere qualcuno che abita dall’altra parte del mondo e accorgerti che le conclusioni a cui siete arrivati dopo tanti affanni e pensieri sono le stesse. Beh non proprio conclusioni, niente di definitivo. Pero’ occhi, cuore e nervi cigolano allo stesso modo ecco.
Ho conosciuto Margaret Killjoy in quel piccolo tour italiano che ha fatto all’inizio di questa estate. Il mio non inglese mi ha subito sigillato la bocca perche’ troppe cose avrei voluto chiedergli, di troppe avrei voluto parlare e il mio vocabolario inglese non aveva verbi, non aveva aggettivi.
La frustrazione di una conversazione inutile mi sembrava peggio della frustrazione di una non conversazione.
Beh, grazie a Reginazabo spesso le mie parole si sono trasformate in un inglese comprensibile, adesso pero’, con la calma portata dall’incedere dell’estate, metto due italiche parole in fila per dare voce a quelle che sono state finora impressioni pressoche’ mute.
Margaret ha un’umile autoironia, molto rara, capace di lasciarti di stucco. Vedendolo aggirarsi solitario per i miei luoghi parlanti, vederlo assorbire racconti dai muri, carpire storie dai graffiti quasi non volesse disturbare. Una curiosita’ rispettosa che ho visto poche volte.
Credo che quello che ha da dire siano cose importanti, a dispetto del tremolio dei suoi nervi quando le deve portare fuori dal nido del suo Io e riversarle in pubblico.
In pochi secondo me sanno ragionare di una linea del tempo cosi’ allungata senza averne paura o senza cercare di farsi tornare le cose. Margaret e’ esattamente uno steampunk e mescola la curiosita’ di un inventore settecentesco alla dissacrante ironia dei kids dell’Inghilterra dei bei tempi che furono.
Non c’e’ mestizia nella sua apocalisse, non c’e’ quella odiosa autocommiserazione, quell’immobilismo da depressi cronici che leggo nelle parole e nelle mani di tanti rivoluzionari che in-animano il nostro tempo.
L’apocalisse nelle sue parole, nei miei stessi pensieri e in quelli dei miei simili, e’ uno spunto, uno scenario dove ambientare futuri possibili. Evidentemente e’ socialmente accettabile prendersi la briga di inventare nuovi mondi solo ipotizzando prima che questo di adesso sia morto. Altrimenti si verrebbe presi per pazzi romantici, ingenui irrazionali, molto poco realistici.
Se si parte da un gioco, come con i bambini, tutto diventa piu’ semplice. Cosa potremmo inventarci se questo mondo finisse? Allora tutti riprenderebbero in mano i lego e le costruzioni di legno di quando erano piccoli e li potremmo osservare persi nelle loro fantasticherie del “e se…”.
Tutto a patto che resti un gioco, guai a pensare di fantasticare troppo su un mondo gia’ indelebilmente scritto.
Ecco. Questi giorni mi sembra manchino di fantasia e del coraggio di lasciarsela scorrere addosso per superare i traumi che ci ha imposto la storia.